sabato 31 dicembre 2016

Ingresso consentito agli animali d’affezione negli ospedali e case di cura in Lombardia con l’approvazione del regolamento sulla tutela della Regione


E’ di questi giorni l’approvazione del regolamento sulla tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo da parte della Giunta regionale della Lombardia che permette l’accesso agli animali da compagnia negli ospedali e case di riposo. La norma, pur se in ritardo e solo parzialmente, recepisce le esigenze di una quota crescente della collettività.
Come insegna la vicenda del 76enne di Pistoia che preferiva vivere in auto piuttosto che separarsi dal pastore belga. O l’episodio dell’uomo che per esaudire il desiderio finale della moglie morente ed ovviare al divieto vigente nella struttura ha introdotto di nascosto, inserendola in una valigia, il loro pastore australiano Bella affinché la coniuge potesse salutarla. Ed ancora il caso della cagnolina di razza schnauzer Sissi che nel febbraio dello scorso anno in Iowa (USA) ha raggiunto da sola, percorrendo circa 5 km, il Mercy Medical Center per rivedere l’amata Nancy Franck ricoverata per una grave forma tumorale.
Mentre nell’inverno 2015 a Pistoia è stata attivato un’iniziativa per l’accoglienza notturna gratuita presso il canile sanitario dei cani dei senza tetto ideata per evitare che i senza fissa dimora trascorressero la notte all’aperto, con le inevitabili conseguenze, pur di evitare il distacco dal loro cane /i.
Sarebbe quindi auspicabile che la normativa affrontasse in modo più ampio la tematica relativa all’accessibilità degli animali d’affezione estendendola all’accoglienza nelle strutture sanitarie e nelle residenza per anziani che si potrebbero attrezzare, dotandosi di locali equipaggiati allo scopo, per ricevere anche cani e gatti di pazienti ed anziani. 
Il settore privato, più attento alle necessità specifiche di una fetta di mercato sempre più consistente, si è già attivato realizzando a Binasco (Milano) Dog Camp la prima residenza per anziani in grado di ospitare cani e gatti.



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lunedì 26 dicembre 2016

Turismo venatorio, “canned hunting” ed industria del leone : tre aspetti di un fenomeno che minaccia una specie a rischio

Strano Paese il Sudafrica : ha adottato nel Parco Kruger un sistema di sorveglianza con nuova tecnologia ( Postcode Meetkat) comprensivo di apparecchiatura mobile mediante radar e sensori elettro-ottici per contrastare il bracconaggio mentre prosegue l’allevamento di leoni ed altre specie a scopo venatorio.
Nello Stato africano, come in altri Paesi del medesimo continente, la caccia al leone è infatti una pratica legalmente consentita dal momento che solo i grandi felini all’interno delle riserve nazionali (Kruger National Park e al Kgalagadi Transfrontier Park ) sono protetti.
Ed il turismo venatorio è la più grande industria dell’Africa sub-sahariana. Settore in cui è particolarmente affermato il “canned hunting” o caccia in gabbia : la caccia ad un animale allevato in cattività, talvolta anche sedato, e rinchiuso in uno spazio ristretto, un recinto realizzato nella savana dal quale non può sfuggire o addirittura una gabbia.
La fabbrica dei “leoni in scatola” è drammaticamente prosperosa, dal momento che secondo dati non ufficiali i felini allevati per essere uccisi sarebbero almeno 5.000, e produce la morte di oltre 1.000 leoni ogni anno.
La vendita dell’attività venatoria avviene on line per una clientela che risulta principalmente costituita da americani seguiti da tedeschi, spagnoli, francesi ed italiani. Il cliente può scegliere e prenotare la vittima su siti specializzati ed uccidere ad un costo contenuto ( con un viaggio di soli di due giorni la spesa è di 5.000 - 8.000 dollari contro i 20.000 - 70.000 dollari occorrenti per un safari di caccia al leone che può durare da 3 giorni alle 3 settimane ). E proprio in virtù dei prezzi bassi si allarga la platea della clientela che può permettersi la battuta di caccia e si incrementa un proficuo mercato.
Il cliente sceglie il leone che vuole uccidere e l’animale è liberato in una piccola area recintata nel bush senza via di scampo. Il cacciatore deve solo infierire con fucile o arco su un animale che non teme gli esseri umani perché allevato in cattività e in uno spazio dal quale non ha alcuna possibilità di fuga.
Il business inizia in strutture, circa 200 fattorie, attrezzate per l’allevamento dei leoni : dall’accoppiamento alla crescita fino all’abbattimento per mano di un cacciatore. Allevamenti in cui i primi esemplari sono leoni spesso acquistati dagli zoo europei o catturati da cuccioli per dare avvio all’industria.
Come in qualunque allevamento intensivo le condizioni sono aberranti : le leonesse sono ridotte a fattrici sottoposte a ritmi procreativi frenetici ricorrendo inevitabilmente all’accoppiamento tra consanguinei ( con nefaste conseguenze per la prole ). I cuccioli sono sottratti alla genitrice pochi giorni dopo il parto per indurre velocemente nella femmina un altro periodo di estro ed un’ulteriore gravidanza.
I leoncini sono svezzati artificialmente dagli esseri umani iniziando un percorso di addomesticamento che, in assenza dell’insegnamento materno, gli impedirà anche in futuro di poter essere reintrodotti nell’habitat naturale nel quale sarebbero incapaci di sopravvivere perché ormai completamente dipendenti dall’uomo.
Paradossalmente talvolta a volte i cuccioli sono utilizzati ai fini del volontariato con i leoni, un business redditizio di cui spesso sono vittime anche gli ignari volontari convinti di operare in programmi di reinserimento nell’ambiente naturale della fauna africana ( come descritto nell’esperienza di Alexandra Lamontagne volontaria in quello che era presentato come centro di recupero della fauna selvatica in Africa http://mysocialpet.it/news/curiosita/serabie-cucciola-di-leone-destinata-alla-caccia-in-scatola-salvata-da-una-donna ) . 
Altre volte i leoncini sono impiegati in quello che viene spacciato per “ turismo sostenibile” organizzando incontri con i leoni per far vivere esperienze “autentiche” ed indimenticabili ai turisti attraverso una passeggiata nella savana con il felino più ammirato ( walking with lions ) contribuendo, inconsapevolmente, al processo di addomesticamento, dove i piccoli sono coccolati ed accarezzati da individui che ignorano la triste realtà ed il destino di questi cuccioli. I quali una volta adulti diventeranno oggetto di tiro al bersaglio di facoltosi e brutali esseri umani.
Lo sfruttamento del grande felino prosegue anche con la speculazione della sua carcassa. Il consumo della sua carne, da sempre apprezzata dalle popolazioni Masai e Samburu, pare attualmente diventato di tendenza negli Stati Uniti con l’e-commerce ( in siti quali ExoticMeatMarket.com ). Se formalmente questa è carne di individui anziani detenuti in zoo, circhi ed allevamenti presenti negli Usa, non si può escludere, stimato il numero di individui soppressi con la pratica del ’“canned hunting” e in considerazione della difficoltà dei controlli, la sua provenienza dai leoni africani.
Le loro ossa sono vendute sul mercato asiatico quali ingredienti della medicina tradizionale che, a causa della penuria di tigri, si è convertita all’uso di altri componenti. Questo spiega perché l’esportazione delle ossa di leone sia aumentato vertiginosamente negli ultimi anni, commercio in cui rientrano anche gli scheletri dei maschi che non risultano sufficientemente maestosi per essere cacciati nei recinti.
I governi africani hanno rilevanti responsabilità nella legittimazione di questa attività venatoria i cui proventi dovrebbero teoricamente essere utilizzati per la conservazione dell’ambiente e dell’ecosistema, la sua difesa dalla deforestazione e dalla conversione in pascolo o ad uso agricolo, oltre che misura cautelativa della caccia illegale. In realtà negli ultimi decenni si è assistito ad una diminuzione progressiva della popolazione dei leoni liberi ( - 30% ) e del loro areale ( - 82%).
I fautori del “canned hunting” giustificano l’aberrante pratica con la tesi che tale attività venatoria limiti la caccia dei leoni selvaggi e sostenga l’economia del Paese. Mentre i fattori sostengono che questi allevamenti siano utili ai fini della salvaguardia e conservazione della specie, nonostante nessuna di queste farm collabori con associazioni o ricercatori a programmi di conservazione della specie.
E gli affari sono incrementati dopo il tentativo fallito, per il ricorso dell’associazione di categoria, del governo sudafricano di disciplinare l’attività ; così oggi nelle fattorie vi sono anche ghepardi, tigri, giaguari.
Nonostante una legge del 2008 seconda la quale gli animali devono trascorrere nell’habitat naturale almeno due anni prima di essere oggetto di attività venatoria. Poichè la normativa non definisce dimensionalmente l’area necessaria per il reinserimento dei leoni in natura ed autorizza l’azione umana per garantire la sopravvivenza dei grandi felini nel biennio, la categoria degli allevatori riesce facilmente a far passare come selvaggi leoni addomesticati.
Purtroppo anche la tutela internazionale risulta assolutamente inadeguata. Infatti
i lavori della 17a Conferenza ( COP17 ) dei 183 Paesi aderenti alla CITES Convention on International Trade in Endangered Species (Convenzione Internazionale per il Commercio delle Specie) conclusasi il 4 ottobre scorso a Johannesburg hanno lasciato i leoni selvatici nella lista delle specie “vulnerabili” senza inserirli tra le specie a maggior rischio d’estinzione per le quali vige il divieto totale di commercio, nonostante il loro numero sia sempre più esiguo ( circa 23.000 e si stima che la specie potrebbe estinguersi entro il 2020).
Quindi è stato proibito il solo traffico di ossa, denti, artigli dei leoni liberi mentre rimane consentito quello dei felini cresciuti in cattività e l’esportazione dei trofei di caccia. Ne è stato vietato l’allevamento dei leoni e tutte le pratiche che ne conseguono.
Intanto si assiste ad una crescita continua della domanda di leoni per attività venatoria e terapeutica con un aumento del loro valore commerciale che complica ulteriormente la difficile condizione di una specie seriamente minacciata e in forte declino. Aumenta infatti il numero dei felini segregati nelle fattorie per essere abbattuti mediante la prassi della “caccia in gabbia” ed ogni anno cresce l’entità degli esemplari uccisi ed esportati come trofei di caccia. Dal momento che rimane legale il trasporto negli Stati Uniti ed in Europa dei trofei costituiti dalla pelle e dalla testa del leone cacciato.
Mentre l’industria del leone, denunciata anche dal documentario “Blood Lions” diretto da Bruce Young, prodotto dalla Regulus Vision Production con Wildland e presentato al Festival Internazionale del film a Durban il 22 luglio scorso 2016, prosegue nella sua folle e dissennata mattanza.

per APPROFONDIMENTI :

https://whatsupanddown.org/tag/sud-africa/








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domenica 11 dicembre 2016

Morte di un cacciatore : il veterinario Luciano Ponzetto deceduto durante l’attività venatoria

Passione fatale quella di Luciano Ponzetto per la caccia.
Non solo per le sue vittime. Il veterinario balzato agli “orrori” della cronaca per essere anche un accanito cacciatore è morto ieri proprio durante l’ennesima battuta di caccia inseguendo una preda.
Attività venatoria esercitata, pare, in modo febbrile.
Appena rientrato dal Canada, Paese in cui si era recato per dedicarsi alla caccia della capra delle nevi, si trovava a Valprato Soana (Valle Soana) in una zona limitrofa al Parco Nazionale del Gran Paradiso nella quale è permesso abbattere i camosci che sconfinano dal territorio del parco. Il veterinario, nel tentativo di recuperare un camoscio appena ucciso, è scivolato su una lastra di ghiaccio e precipitato in un dirupo.
Inutili i soccorsi, il corpo senza vita di Ponzetto è stato recuperato nel pomeriggio dal soccorso alpino e trasportato all’ospedale di Cuorgnè.