Strano
Paese il Sudafrica : ha adottato nel
Parco Kruger un
sistema di sorveglianza con nuova tecnologia ( Postcode Meetkat)
comprensivo di apparecchiatura mobile mediante radar e sensori
elettro-ottici per contrastare il bracconaggio mentre prosegue
l’allevamento di leoni ed altre specie a scopo venatorio.
Nello
Stato africano, come in altri Paesi del medesimo continente, la
caccia al leone è infatti una pratica legalmente consentita dal
momento che solo i grandi felini all’interno delle riserve
nazionali (Kruger National Park e al Kgalagadi Transfrontier Park )
sono protetti.
Ed
il turismo venatorio è la più grande industria dell’Africa
sub-sahariana. Settore in cui è particolarmente affermato il “canned
hunting” o caccia in gabbia : la caccia ad un animale allevato in
cattività, talvolta anche sedato, e rinchiuso in uno spazio
ristretto, un recinto realizzato nella savana dal quale non può
sfuggire o addirittura una gabbia.
La
fabbrica dei “leoni in scatola” è drammaticamente prosperosa,
dal momento che secondo
dati non ufficiali i felini allevati per essere uccisi sarebbero
almeno 5.000, e produce la morte di oltre 1.000 leoni ogni anno.
La
vendita dell’attività venatoria avviene on line per una clientela
che risulta principalmente costituita da americani seguiti da
tedeschi, spagnoli, francesi ed italiani. Il cliente può scegliere e
prenotare la vittima su siti specializzati ed uccidere ad un costo
contenuto ( con un viaggio di soli di due giorni la spesa è di 5.000
- 8.000 dollari contro i 20.000 - 70.000 dollari occorrenti per un
safari di caccia al leone che può durare da 3 giorni alle 3
settimane ). E proprio in virtù dei prezzi bassi si allarga la
platea della clientela che può permettersi la battuta di caccia e si
incrementa un proficuo mercato.
Il
cliente sceglie il leone che vuole uccidere e l’animale è liberato
in una piccola area recintata nel bush senza via di scampo. Il
cacciatore deve solo infierire con fucile o arco su un animale che
non teme gli esseri umani perché allevato in cattività e in uno
spazio dal quale non ha alcuna possibilità di fuga.
Il
business inizia in strutture, circa 200 fattorie, attrezzate per
l’allevamento dei leoni : dall’accoppiamento alla crescita fino
all’abbattimento per mano di un cacciatore. Allevamenti in cui i
primi esemplari sono leoni spesso acquistati dagli zoo europei o
catturati da cuccioli per dare avvio all’industria.
Come
in qualunque allevamento intensivo le condizioni sono aberranti : le
leonesse sono ridotte a fattrici sottoposte a ritmi procreativi
frenetici ricorrendo inevitabilmente all’accoppiamento tra
consanguinei ( con nefaste conseguenze per la prole ). I cuccioli
sono sottratti alla genitrice pochi giorni dopo il parto per indurre
velocemente nella femmina un altro periodo di estro ed un’ulteriore
gravidanza.
I
leoncini sono svezzati artificialmente dagli esseri umani iniziando
un percorso di addomesticamento che, in assenza dell’insegnamento
materno, gli impedirà anche in futuro di poter essere reintrodotti
nell’habitat naturale nel quale sarebbero incapaci di sopravvivere
perché ormai completamente dipendenti dall’uomo.
Altre
volte i leoncini sono
impiegati in quello che viene spacciato per “ turismo sostenibile”
organizzando
incontri con i leoni per far vivere esperienze “autentiche” ed
indimenticabili ai turisti attraverso una passeggiata nella savana
con il felino più ammirato ( walking with lions ) contribuendo,
inconsapevolmente, al processo di addomesticamento, dove i piccoli
sono coccolati ed accarezzati da individui che ignorano la triste
realtà ed il destino di questi cuccioli. I quali una volta adulti
diventeranno oggetto di tiro al bersaglio di facoltosi e brutali
esseri umani.
Lo
sfruttamento del grande felino prosegue anche con la speculazione
della sua carcassa. Il consumo della sua carne, da sempre apprezzata
dalle popolazioni Masai e Samburu, pare attualmente diventato di
tendenza negli Stati Uniti con l’e-commerce ( in siti quali
ExoticMeatMarket.com ). Se formalmente questa è carne di individui
anziani detenuti in zoo, circhi ed allevamenti presenti negli Usa,
non si può escludere, stimato il numero di individui soppressi
con
la pratica del ’“canned hunting” e in considerazione della
difficoltà dei controlli, la sua provenienza dai leoni africani.
Le
loro ossa sono vendute sul mercato asiatico quali ingredienti della
medicina tradizionale che, a causa della penuria di tigri, si è
convertita all’uso di altri componenti. Questo spiega perché
l’esportazione delle ossa di leone sia aumentato vertiginosamente
negli ultimi anni, commercio in cui rientrano anche gli scheletri
dei maschi che non risultano sufficientemente maestosi per essere
cacciati nei recinti.
I
governi africani hanno rilevanti
responsabilità
nella legittimazione di questa attività venatoria i cui proventi
dovrebbero teoricamente essere utilizzati per la conservazione
dell’ambiente e dell’ecosistema,
la sua difesa dalla deforestazione e dalla conversione in pascolo o
ad uso agricolo, oltre che misura cautelativa della caccia illegale.
In realtà negli ultimi decenni si è assistito ad una diminuzione
progressiva della popolazione dei leoni liberi ( - 30% ) e del loro
areale ( - 82%).
I
fautori del “canned hunting” giustificano l’aberrante pratica
con la tesi che tale attività venatoria limiti la caccia dei leoni
selvaggi e sostenga l’economia del Paese. Mentre i fattori
sostengono
che questi allevamenti siano utili ai fini della salvaguardia e
conservazione della specie, nonostante nessuna di queste farm
collabori con associazioni o ricercatori a programmi di conservazione
della specie.
E
gli affari sono incrementati dopo il tentativo fallito, per il
ricorso dell’associazione di categoria, del governo sudafricano di
disciplinare l’attività ; così oggi nelle fattorie vi sono anche
ghepardi, tigri, giaguari.
Nonostante
una legge del 2008 seconda la quale gli animali devono trascorrere
nell’habitat naturale almeno due anni prima di essere oggetto di
attività venatoria. Poichè la normativa non definisce
dimensionalmente l’area necessaria per il reinserimento dei leoni
in natura ed autorizza l’azione umana per garantire la
sopravvivenza dei grandi
felini nel biennio, la categoria degli allevatori riesce facilmente a
far passare come selvaggi leoni addomesticati.
Purtroppo
anche la tutela internazionale risulta assolutamente inadeguata.
Infatti
i
lavori della 17a
Conferenza ( COP17 ) dei 183 Paesi aderenti alla CITES Convention on
International Trade in Endangered Species (Convenzione
Internazionale per il Commercio delle Specie) conclusasi il 4
ottobre scorso a Johannesburg hanno lasciato i leoni selvatici nella
lista delle specie “vulnerabili” senza inserirli tra le specie
a maggior rischio d’estinzione per le quali vige il divieto totale
di commercio, nonostante il loro numero sia sempre più esiguo (
circa 23.000 e si stima che la specie potrebbe estinguersi entro il
2020).
Quindi
è stato proibito il solo traffico di ossa, denti, artigli dei leoni
liberi mentre rimane consentito quello dei felini cresciuti in
cattività e l’esportazione dei trofei di caccia. Ne
è stato vietato l’allevamento dei leoni e tutte le pratiche che ne
conseguono.
Intanto
si
assiste ad una crescita continua della domanda di leoni per attività
venatoria e terapeutica
con
un aumento del loro valore commerciale che complica ulteriormente la
difficile condizione di una specie seriamente minacciata e in forte
declino. Aumenta infatti il numero dei felini segregati nelle
fattorie per essere abbattuti mediante la prassi della “caccia in
gabbia” ed ogni anno cresce
l’entità
degli
esemplari uccisi ed esportati come trofei di caccia. Dal momento che
rimane
legale il trasporto negli Stati Uniti ed in Europa dei trofei
costituiti dalla pelle e dalla testa del leone cacciato.
Mentre
l’industria
del leone, denunciata anche dal documentario “Blood Lions”
diretto da Bruce Young, prodotto
dalla Regulus Vision Production con Wildland e
presentato
al Festival Internazionale del film a Durban il 22 luglio scorso
2016,
prosegue
nella sua folle e dissennata mattanza.
per
APPROFONDIMENTI
:
https://whatsupanddown.org/tag/sud-africa/
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